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Channel: identità – La città nuova
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La storia vera di una giovane transgender: “Girl”

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Presentato all’ultimo Festival di Cannes, vincitore di numerosi premi e osannato dalla critica, Girl (in sala dal 27 settembre 2018) viene indicato come uno dei casi cinematografici dell’anno. Opera prima del ventisettenne belga Lukas Dhont (premiato con la Caméra d’Or) e interpretato dal giovanissimo Victor Polster (miglior attore al Certain Regard), è un film che può infastidire. Ma che, in realtà, vuole scioccare. Ci riesce, soprattutto sul finale: che ha causato lo svenimento del mio vicino di poltrona. La “scena del crimine” è quella con cui il regista, forse per dare un taglio a una storia che ormai si ripeteva uguale a se stessa da quasi due ore, conclude (o quasi) la pellicola. La sequenza è effettivamente carica di pathos: quello accumulato, con un andamento esponenziale, durante i precedenti 100 minuti (circa) di proiezione. Che, giunto al limite, esplode: un po’ come quando uno mangia oltre misura, e poi vomita. Per liberarsi. In questo caso però è lo spettatore a essere liberato, con un pugno nello stomaco. Il momento è quasi splatter: lo si poteva intuire, non era necessario farlo praticamente vedere. A questo “the end” seguono imprevedibili quanto improbabili attimi di leggerezza, simili a una sorta di sospiro di sollievo: come a dire che tutto è bene quel che finisce bene, anche se il bene lo si ottiene male o malamente.

Tutto ciò accade raccontando la storia (vera) di una quindicenne imprigionata in un corpo maschile, sentito come estraneo a sé: un difetto di cui vergognarsi (nel migliore dei casi) e un nemico da combattere, con qualsiasi mezzo. Per esempio, attraverso la danza: vista più che come una forma d’arte o un tipo di sport, come una disciplina autolesionista che rappresenta l’apoteosi del dolore e del sacrificio. Uno strumento in più per farsi del male: la protagonista, infatti, si mette dello scotch sul pene per cercare di nasconderlo e danza sulle punte fino a farsi sanguinare i piedi, mentre piega il suo fisico all’idea che ha di sé, imponendogli di fare ed essere quello che non può fare perché non è. Ma che vuole che sia, a tutti i costi.

Non è così strano o improbabile imbattersi in storie di uomini e donne che vogliono cambiare sesso. Però questa volta il tema viene trattato in maniera per me ripetitiva, e soprattutto voyeuristica: con la telecamera che indugia, in continuazione, sul seno che non c’è o sul fallo che c’è. Come a sottolineare – con l’evidenziatore- quali sono i problemi esteriori/estetici che vanno rimossi (grazie, lo sapevamo). E con quanta fretta si cerchi di rimuoverli, soprattutto se si è degli adolescenti (che, è risaputo, fanno del “tutto e subito” un paradigma contro cui si scontrano in continuazione, fino a quando maturano, se maturano). Succede così che il lungometraggio -invece di essere un manifesto LGBT (come probabilmente è pensato per diventare, e già in parte forse è), diventi una specie di morboso trattato sull’identità di genere, e sull’impazienza: su cosa vuol dire e su cosa succede, quando non si riescono ad aspettare i tempi naturali necessari al cambiamento (in questo caso sessuale).

Peccato che il film sia tutto qui: cioè il racconto di un ragazzo che vuole diventare immediatamente la ragazza che sente di essere, e che per farlo mette in atto una guerra (senza esclusione di colpi, e di tagli) con il suo corpo. Mentre viene circondato da una famiglia e da un équipe di medici che più accoglienti, e accondiscendenti, non potrebbero essere (ai limiti della realtà, detta tutta). Comprensivi oltre ogni logica: non del desiderio della protagonista (questo sì, più che comprensibile) ma dalle modalità che utilizza per realizzarlo. Il problema dunque, secondo me, non è il contenuto del lungometraggio ma la forma a loop intervallata da immagini perturbanti con cui viene affrontato. Per raccontare quello che già è stato detto (in maniera, a mio avviso, più interessante e creativa). Il regista, per spiegare la genesi del film, ha dichiarato che quando era bambino il padre voleva fare di lui un boy scout mentre lui preferiva recitare, cantare e ballare, solo che la gente vedeva queste cose come “da bambina” e quindi aveva deciso di smettere, per non farsi ridere dietro; poi, anni dopo, era venuto a conoscenza della storia di una ragazza nata nel corpo di un ragazzo: “È così che è iniziato Girl: dal bisogno di dire qualcosa su come percepiamo il genere, sulla femminilità e la mascolinità. Ma soprattutto sulla lotta interiore di una giovane eroina che mette a rischio il proprio corpo per diventare la persona che vuole essere. Qualcuno che sceglie di essere se stesso all’età di 15 anni, quando a molte persone occorre una vita intera”, ha detto.

C’erano altri modi, secondo me, per renderle omaggio. Io ho rimpianto sia Billy Elliot che (soprattutto) Tomboy, per esempio. Nonostante Girl venga considerato un film a metà strada tra i due, o addirittura la loro sintesi.


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